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Giorgio de Chirico

Archeologi, 1972, tempera su cartone, 60 × 50

©Foto Massimo Listri

 

Archeologi, 1969, bronzo dorato, 42 × 23,5 × 31 cm

©Foto Massimo Listri

 

Giorgio de Chirico (Volo 1888 – Roma 1978)

Frequentò il Politecnico di Atene e nel 1906 si trasferì a Monaco, dove studiò all’Accademia di belle arti. Nel marzo del 1910, dopo un breve soggiorno a Milano, si trasferì a Firenze. In piazza Santa Croce ebbe le prime rivelazioni metafisiche e realizzò i dipinti L’énigme d’un après-midi d’automne, L’énigme de l’oracle e L’énigme de l’heure. Nel luglio del 1911 raggiunse a Parigi il fratello Alberto (in arte Savinio). Qui sviluppò il tema delle piazze d’Italia, ispirato dall’architettura torinese e dagli insegnamenti della filosofia nietzschiana. Nel marzo 1913 espose al Salon des Indépendants, dove venne notato da Picasso e Apollinaire. Con quest’ultimo instaurò una collaborazione e una duratura amicizia. Nel 1914 conobbe il suo primo mercante, Paul Guillaume. Nel 1915 iniziò il ciclo di opere caratterizzato dai manichini, e nel giugno dello stesso anno si presentò alle autorità militari di Firenze e fu inviato a Ferrara, dove dipinse i primi interni metafisici. Nel 1917-1918 realizzò le sue opere più note: Il grande metafisico, Ettore e Andromaca, Il trovatore e Le muse inquietanti. Si trasferì a Roma nel gennaio 1919 e poco dopo tenne la prima personale alla Casa d’arte Bragaglia. Nei musei riscoprì la produzione dei grandi artisti e iniziò a fare copie delle opere dei maestri italiani del Rinascimento, tra cui Raffaello e Michelangelo. Alla fine del 1925 si stabilì nuovamente a Parigi. Nel 1929 pubblicò Hebdomeros, le peintre et son génie chez l’écrivain, che riscosse uno straordinario successo. Seguirono l’illustrazione dei Calligrammi di Apollinaire e l’enigmatica serie dei Bagni misteriosi. Partì per New York nel 1936 e tornò in Italia nel 1938. Negli anni Quaranta iniziò il suo cosiddetto ‘periodo barocco’, ispirato dai grandi maestri, tra cui Rubens. Lavorò a una serie di sculture in terracotta e, nel 1941, illustrò l’Apocalisse di san Giovanni. Nel 1946 sposò in seconde nozze Isabella Pakszwer, che gli restò accanto fino alla morte. A partire dalla fine degli anni Sessanta riprese i soggetti metafisici per trasporli in contesti gioiosi e pieni di colore: nasceva la Neometafisica. Le sue spoglie riposano nella chiesa di San Francesco a Ripa a Roma.

Gli archeologi, ideati da Giorgio de Chirico negli anni Venti, derivano da una declinazione del Manichino, che diventò un topos dell’arte metafisica. L’artista riuscì a realizzare un’immagine onirica, che sollecita il ricordo di un mondo archeologico e mitologico attraverso «il senso misterioso del sogno» (Castelfranco). La figura degli archeologi, composta da un capo senza volto e da un addome pieno di antichi reperti, compendia i simboli del vaticinatore e del veggente, di colui che riesce a vedere ‘oltre’ perché dotato da Mnemosine, la madre delle Muse, di voce profetica e vista superiore, così come Omero, cieco, riuscì a cantare le gesta dell’epica greca nell’Iliade e nell’Odissea. Il busto contiene un affastellamento di rovine, richiamo dell’antica civiltà, ed elementi della natura come chiome di alberi e onde marine. Gli archeologi sono i depositari della memoria, hanno il compito di portare alla luce le tracce di un passato lontano e di farlo rivivere nel presente; allo stesso modo la conoscenza dell’antico permette loro di leggere e interpretare con sguardo nuovo l’attualità, contribuendo alla sua comprensione. È il moto circolare nietzschiano, in cui passato e futuro vivono nella simultaneità del presente. La scelta di rappresentare queste figure antiche dal busto alto e le gambe corte, abbigliate con pepli e comodamente sedute in conversazione, deriva dalla riflessione dell’artista sul senso di maestosità delle sculture gotiche, che contribuisce ad amplificare l’aspetto lirico e poetico dei personaggi e ad accentuare nell’osservatore il senso di alienazione e spaesamento già sollecitato, al primo sguardo, dalla collocazione delle figure in un ambiente chiuso, costruito su una prospettiva accelerata. In questa versione del 1972, anche il colore aiuta alla comprensione dell’enigma, della traslazione dal passato al presente, in un’evoluzione che, dallo spessore del bianco e nero, si trasforma nel leggero e tenue pallido rosa dell’attualità. (Simonetta Antellini)