Bianco nero cellotex, 1969, acrilico su cellotex, 155 × 100 cm
©Foto Massimo Listri
Alberto Burri (Città di Castello 1915 – Nizza 1995)
Laureato in medicina, iniziò a dipingere da prigioniero durante la Seconda guerra mondiale. Nel 1948 intraprese le prime ricerche astratte con l’impiego di materiali extra-pittorici. Ai Bianchi, ai Catrami, ai Gobbi, alle Muffe e ai Sacchi dei primi anni Cinquanta seguirono le Combustioni, i Ferri e i Legni, nonché, dagli anni Sessanta, le Plastiche, mentre i Cretti e i Cellotex caratterizzano la sua attività degli ultimi vent’anni. La rivoluzione linguistica di Burri influenzò molti movimenti artistici degli anni Sessanta e Settanta, non solo italiani. Nel 1978 creò la Fondazione Burri a Città di Castello. Nel 1985 iniziò il Grande cretto che ricopre le macerie di Gibellina. Tra le mostre, si ricordano le numerose partecipazioni alla Biennale di Venezia, dal 1952 al 1960, quando vinse il premio AICA, e ancora nel 1966 e nel 1968, dal 1984 al 1988 e nel 1995. Fu a Documenta di Kassel nel 1959, 1964, 1982. Fra le personali, la prima al Carnegie Institute di Pittsburgh nel 1957, itinerante negli USA, e le mostre al Palais des beaux arts di Bruxelles e al Museum Haus Lange di Krefeld nel 1959. Nel 1965 vinse il primo premio alla Biennale di San Paolo. Retrospettive sul suo lavoro si sono tenute alla GNAM nel 1976, al Guggenheim di New York nel 1978 e a Palazzo delle Esposizioni a Roma nel 1996. Il Guggenheim l’ha ricordato ulteriormente nel 2015, in occasione del centenario della nascita.
L’opera Bianco nero cellotex di Alberto Burri è un emblematico dipinto ad acrilico. L’artista umbro si è distinto nella seconda metà del XX secolo per l’impiego di materiali innovativi ed extra-artistici con i quali ha elaborato le sue opere rivoluzionarie. Alla stregua del cellotex, composto ligneo fonoassorbente usato per questo dipinto, Burri ha lavorato con il catrame, la pietra pomice, i sacchi di iuta, la plastica, il legno, la lamiera di ferro, il caolino e la foglia d’oro, spesso usando mezzi insoliti come l’ago per cucire, la fiamma al gas propano, le colle viniliche, le spatole, lame da taglio e altro. Nelle opere a base di cellotex, in particolare, elaborandone la superficie attraverso sbucciature, intagli e altri interventi con le colle viniliche, Burri ha reso le diverse zone del supporto sensibili al colore e alla sua differente resa cromatica e luminosa. Diversificando con opportuni trattamenti la qualità della superficie da dipingere, ha dunque ottenuto, con stesure di colore monocromo, valenze di opacità e luminosità oltre che pregnanze cromatiche di sensibile intensità. Quest’opera, nella sua antinomia cromatica, trova forme di estrema sintesi che tuttavia riecheggiano e attualizzano morfologie risalenti alla grande pittura umanistica rinascimentale italiana ed europea tra Quattro e Cinquecento, e si inscrive in quella fase della pittura di Burri che, dall’uso drammatico della materia negli anni Cinquanta, giunge a un riordinamento formale delle tensioni che si coniuga con i suoi lavori dello stesso periodo oggi conservati al Museo degli Uffizi di Firenze. (Bruno Corà)